Per le migrazioni, anzi per la migrazione che concretamente è in corso dall’Africa e dal vicino Oriente verso l’ Europa, occorre un progetto politico.
Abbiamo a josa analisi sociologiche, studi sull’«integrazione» culturale, dissertazioni ed esortazioni morali; ma politicamente abbiamo solo proclami; non abbiamo il progetto politico che è necessario.
La discussione politica si ferma fuori dal problema e in sostanza non l’affronta, cercando di evitarlo con vani scongiuri. Vani scongiuri sono la distinzione fra profughi per causa di guerra o per causa di fame, l’erezione di muri di confine o di recinti di raccolta. Perfino la costituzione di centri provvisori d’accoglienza e la programmazione delle operazioni dei salvataggi in mare – iniziative certo meritorie dal punto di vista umanitario – valgono soltanto come rimedi palliativi ai più dolorosi effetti del fenomeno, ma non valgono come soluzione del problema.
Per trattare il quale politicamente, cioè domandandosi che fare?, è necessario partire dalla constatazione che la migrazione c’è, ed è di imponenti dimensioni. Su questo punto tutti convengono. Ma non tutti, o non molti, convengono sui punti che non è con i permessi di accesso e con i decreti di espulsione, né con la distinzione fra rifugiati e semplici immigrati (e nemmeno fra schedati e clandestini) che si risolve il problema: e ciò perché pochi si rendono conto che non è pensabile cercare di risolverlo operando soltanto sul flusso migratorio.
La migrazione ha un’origine, un passaggio (un flusso), una destinazione. Il problema del passaggio è secondario; i veri problemi sono quelli dell’origine e della destinazione: del Paese (società) di provenienza e del Paese (società) di arrivo.
Ciò che manca sono progetti politico-economici per i i paesi di partenza e per i paesi di arrivo. Il problema dei flussi di passaggio è semplice: basta organizzare un regolare servizio di trasporto di linea fra quattro o cinque porti africani e quattro o cinque porti europei (ma perché non anche qualche porto in Sudamerica e in Canada?) e tutta la tragedia dei morti in mare avrebbe fine (e con essa la chiacchiera imbelle, che è davvero tragicomica, sullo scafismo ed i modi per combatterlo).
Non c’è dubbio che i progetti di cui parlo devono essere concordati nell’Unione Europea e devono essere fatti oggetto di Trattati (della stessa Unione) con i paesi d’origine delle migrazioni. Sono progetti che devono prevedere la realizzazione, nei paesi di origine, delle grandi opere – acquedotti, strade, centrali energetiche e di smaltimento di rifiuti, pubblici servizi, scuole, centri di ricerca (scientifica e tecnologica) – che costituiscono le infrastrutture dello sviluppo. Il punto cruciale è che questi investimenti, cui i paesi “ricchi”, i loro governi, le loro banche, le loro imprese, dovrebbero impegnarsi, non devono essere visti come aiuti finanziari agli altri, ma a se stessi, nell’ottica di un’economia globale. Gli aiuti umanitari sono un’altra cosa.
Ed è certo che questa nuova visione avrà ostili le lobbies che attualmente, sia nei paesi che li danno sia nei paesi che li ricevono, dominano il settore degli aiuti internazionali. Ed è probabile, che questo modo di vedere le cose, e la iniziativa europea che ne deriva, susciti sospetto ostile anche nella Banca Mondiale e nel Fondo Monetario, cosicché sarà necessario un grande lavoro diplomatico. Ma sono queste sfide che i veri riformisti sapranno giocare.
Parimenti sono da concepire e realizzare, nei paesi europei di immigrazione – in uno e in parallelo con l’avvio dei predetti progetti nei paesi d’emigrazione, e dato che i loro effetti sul progresso economico locale si manifesteranno con una dilazione che, se pure accelerata, non è prevedibile se non a sette-dieci anni – progetti, a periodo breve, di insediamento (casa, servizi e lavoro) per la folla degli immigrati fuggitivi. Sono, questi, investimenti dello stesso genere dei primi, ma di specie diversa. Immagino, per esempio, in Italia, progetti di riqualificazione agricola (e forestale) dell’Appennino, con la sistemazione dei territori e delle acque, e la ripopolazione dei centri urbani ora deserti e abbandonati.
Una terza visione è quindi necessaria: quella della formazione di una “classe mista”: mista nelle razze, nelle nazionalità e nei luoghi di lavoro e di vita: intendo dire, per es., che la mobilità frequente fra i paesi africani di partenza ed europei di arrivo e di nuovo insediamento deve essere agevole come quella fra i paesi europei.
Ci fosse oggi una classe politica come quella di allora – quella della D.C. e del P.C.I., quella di Alcide De Gasperi e di Palmiro Togliatti – ricorderei che, a ricostruire l’Italia, dopo la guerra che l’aveva distrutta e divisa, furono i grandi progetti politici: le istituzioni della nuova Costituzione, l’affermazione dei valori dell’uguaglianza e della famiglia, della libertà d’impresa temperata dall’interesse pubblico, la riforma agraria, l’iniziativa economica pubblica, i piani case e autostradali, la tutela del lavoro e del risparmio.
Basta chiacchiere, dunque: anche il fenomeno migratorio sia motivo di pensiero in positivo, di progettualità e di conseguente azione politica.
SERGIO SCOTTI CAMUZZI